Pubblichiamo la settima parte dell’articolo “Le Tappe Fondamentali del Purna Yoga di Sri Aurobindo”, a cura di Roberto Maria Sassone.
Buona lettura!
PARTE SETTIMA
43) A questo punto abbiamo fatto insieme un lungo viaggio ed abbiamo molti elementi di comprensione del Purnayoga e del suo metodo. È giunto il momento d’inserire dei brani di una lettera che Sri Aurobindo scrisse a Barin, suo fratello minore, che getta un’ulteriore chiarezza sulle intenzioni di Sri Aurobindo nel proporre la Via dello Yoga integrale e ci mostra come esso si collochi su un’ottava superiore rispetto alla Tradizione precedente:
(7 aprile 1920) “Mio caro Barin. Ho ricevuto la tua lettera, ma fino ad oggi non sono riuscito a risponderti. Anzi è un miracolo che oggi possa star seduto qui a scriverti (…) Parliamo prima di tutto del tuo yoga. Vorresti incaricarne me, ed io non chiedo di meglio, ma questo vuol dire incaricarne Colui che muove entrambi, te e me, apertamente o nascostamente, per mezzo della sua divina Shakti (Energia). Devi perciò sapere che come inevitabile conseguenza dovrai incamminarti per quella particolare strada che Egli mi ha ordinato di seguire e che io chiamo la Via dello Yoga integrale. Il punto da cui sono partito – quello che mi è stato trasmesso da Lelé (il guru tantrico che aveva incontrato nel 1908, tramite il quale realizzò il silenzio mentale ed il Nirvana) – era solo una ricerca della Strada, un giro d’orizzonte, una prima presa di contatto, un punto di partenza: prendere in mano o esaminare con rigore questo o quell’aspetto dei vecchi yoga parziali, sperimentandone a fondo (diciamo così) uno per poi passare a un’altro”. “In seguito, una volta arrivato a Pondicherry, questa condizione instabile è finita. Il Guru del mondo che è dentro di noi mi ha dato tutte le istruzioni necessarie al mio cammino (…) Ti scriverò in seguito in che consiste il cammino di questo yoga (…) Per il momento posso dire una cosa sola: il suo principio basilare è di armonizzare e di unificare la completa conoscenza con l’azione completa e con la completa Bakti (adorazione – devozione), innalzandole al di sopra della mente e infondendovi una completa perfezione sul piano sopramentale o Vijnana (Gnosi). Il difetto dei vecchi yoga consisteva nel fatto che, proprio perché possedevano la conoscenza della mente e dello Spirito, l’esperienza dello spirito si accontentavano di farla nella mente. Ma la mente riesce ad afferrare solo ciò che è diviso e parziale: non può assolutamente cogliere l’infinito e l’indivisibile. I mezzi di cui dispone per raggiungere l’infinito sono il Sannyasa (Rinuncia), il Moksha (Liberazione) e il Nirvana; altri non ne possiede. E in effetti chiunque può raggiungere il Moksha senza-forma; ma a che pro? Il Brahman, il Sé, Dio, comunque esistono sempre. Quello che Dio vuole dall’uomo è potersi incarnare quaggiù nell’individuo e nella collettività: realizzare Dio nella vita“. “Le antiche strade yoghiche non sono riuscite ad armonizzare lo Spirito con la vita: al contrario hanno rinnegato il mondo, considerandolo Maya (Illusione) o un effimero Gioco. Il risultato è stato la perdita del potere di vita. (…) Alcuni sannyasin baraga (asceti) sono diventati santi perfetti e liberati, alcuni bakta (adoratori di Dio) si sono messi a danzare nell’estasi folle dell’amore e nella dolce emozione dell’Ananda (suprema Gioia); e poi un popolo intero è diventato amorfo, svuotato d’intelligenza, è precipitato nel tamas (inerzia). È questo l’effetto di una vera spiritualità? Certo che no! Anche se dobbiamo innanzitutto arrivare tutte le esperienze parziali sul piano mentale, lasciando che la mente venga inondata e illuminata dalla luce spirituale; dopo di che però bisogna andare oltre (…) Sul piano sopramentale l’ignoranza generatrice della dualità Spirito-Materia e della contrapposizione tra verità dello Spirito e verità della vita scompare. Lì non è più possibile parlare del mondo come Maya (illusione). Il mondo è il Gioco eterno di Dio, la manifestazione eterna del Sé (…) Corpo fisico, vita, mente e comprensione (conoscenza), Sopramentale, Ananda, sono questi i cinque piani dello spirito (…) Una volta raggiunto il Sovramentale è facile innalzarsi fino all’Ananda. Allora si acquisisce la solida base di uno stato di Ananda indivisibile ed infinito non solo nel Parabrahman (Assoluto) fuori dal tempo, ma anche nel corpo, nella vita, nel mondo. L’essere integrale (Sat), la coscienza integrale (Cit), la Gioia integrale (Ananda) sbocciano e prendono forma nella vita. È questa la chiave di volta del mio yoga, il suo principio fondamentale (…) Quando questa siddhi (realizzazione) sarà completa (in me), sono assolutamente certo che attraverso di me Dio farà avere agli altri la siddhi sopramentale con uno sforzo meno grande”. “Non sono impaziente di avere successo in questo lavoro. Quello che deve succedere succederà al momento voluto da Dio (…) perché questo lavoro non è mio, è di Dio. Prima è stata la volta del Vedanta: Advaita, Sannyasa, Maya di Shankara, eccetera. Adesso è la volta del dharma vishnuita: Lila, amore, ebbrezza dell’esperienza emotiva. Tutte cose vecchissime, inadatte all’epoca nostra, che non dureranno (…) Ma il merito del bhava (slancio) vishnuita è di mantenere un certo legame tra Dio e il mondo e di dare un senso alla vita (…) La tendenza al formarsi di tante sette, che tu hai notato, era inevitabile. È tipico della natura della mente cogliere una certa parte prendendola per il tutto ed eliminando tutto il resto (…) I discepoli (di queste sette) stanno lì ad intrecciare le loro coroncine. Lasciamoli fare. Le ghirlande si disferanno da sole quando Dio si manifesterà pienamente (…) Lasciamo la forza spirituale agire liberamente sotto qualsiasi forma e in tutte le sette immaginabili. Si tratta dello stadio infantile, embrionale, di un’epoca nuova”. “Io non ho fretta: lascio che ciascuno si sviluppi secondo la propria natura (…) Ogni essere si forma e si sviluppa dall’interno, io non voglio mettermi a costruire nulla dall’esterno (…) Quello che ho in mente è un Sangha basato sullo Spirito (…) ma basta che sull’impresa cada la minima ombra di egoismo perché il Sangha si tramuti in una setta. Può infiltrarsi con la massima naturalezza l’idea che questa o quella organizzazione rappresenti l’unico vero Sangha”. “Mi dirai: ‘Ma che bisogno c’è di un Sangha? L’importante è essere liberi. C’è del vero in questo ma è solo un aspetto della verità. Perché noi non abbiamo a che fare solo con lo Spirito privo di forma: dobbiamo anche governare il moto della vita. E senza una forma non può esserci nessun reale movimento. Se il Senza-Forma ha preso forma (…) non è stato certo per un capriccio di Maya (l’Illusione). Se esiste una forma è perché una forma è indispensabile. Noi non vogliamo escludere dal nostro campo d’azione nessuna attività del mondo. Politica, industria, società, poesia, letteratura, arte: tutte queste attività continueranno ad esistere, ma dobbiamo dare a ciascuna un’anima nuova e una nuova forma (…) All’inizio il Sangha non avrà una forma accentrata; coloro che ne condividono l’ideale saranno uniti, lavorando però in luoghi diversi. Più tardi potranno formare una specie di comunità spirituale e costituire un Sangha unitario”. “Considerare il corpo una carcassa è il segno del Sannyasa, della via del Nirvana. Con questa idea non si può vivere la vita del mondo. Bisogna invece sentire la gioia in tutte le cose, nel corpo come nello Spirito. Il corpo ha una sua coscienza, è la forma di Dio. Quando vedremo Dio in tutto quello che esiste al mondo (…) allora avremo raggiunto la gioia universale. E il flusso di questa gioia si precipita e si espande anche attraverso il corpo. In questo stato, colmo di coscienza spirituale, possiamo anche condurre una vita coniugale e vivere in mezzo al mondo”. “Nessuno è un Dio, ma in ogni uomo c’è un Dio e scopo della vita divina è manifestarLo. È una cosa che possiamo fare tutti, anche se riconosco che esistono adhara (recipienti) grandi e piccoli (…) Una volta che un recipiente, di qualsiasi natura, è stato toccato da Dio, una volta che lo spirito si è svegliato, che sia grande o piccolo non fa molta differenza. Ci potranno essere più difficoltà, ci potrà volere più o meno tempo, ma neanche questo è certo. Il Dio interiore non tiene in nessun conto questi ostacoli e carenze e si apre un passaggio nonostante tutto. Il Sadhaka (l’artefice) di questo yoga non è la nostra forza personale, ma la Shakti (Energia) di Dio”. “Noi facevamo la sadhana dell’Amore, ma quando non c’è né Conoscenza né Shakti, l’Amore non può durare e il suo posto viene preso da piccineria e meschinità. In menti ristrette e piccine non c’è posto per l’Amore (…) ecco perché non voglio più come basi né il fervore emotivo né una qualche ebbrezza mentale. Io voglio che il mio yoga si basi su una vasta e potente equanimità”. “Non ambisco ad avere centinaia di migliaia di discepoli. Mi basterebbe trovare un centinaio di uomini completi, purificati del piccolo egoismo, che siano strumenti di Dio. Non ho nessuna fiducia nel vecchio mestiere di guru. Io non voglio essere un guru”.
TAMAS, RAJAS E SATTVA
44) “Prakriti (la Natura) opera con la conoscenza e la felicità del Purusha, l’Essere che le è associato e che dimora in lei (…) Purusha non esegue; sostiene Prakriti nella sua azione“.
L’Essere supremo si esprime e si manifesta attraverso la Natura in tutte le sue forme. Il Purusha è il Divino maschile, la Prakriti è il divino femminile, che opera con l’energia della Shakti.
“Con una completa immersione in Prakriti, l’anima può divenire incosciente o subcosciente, assopita nelle sue forme, come nella terra e nel metallo, o semi-assopita nella vita vegetale. In questa coscienza rimane sottoposta al dominio di tamas, principio, potere e modo qualitativo dell’oscurità e dell’inerzia; rajas e sattva sono presenti, ma sepolti sotto lo spesso strato di tamas”.
“Emergendo alla propria natura d’essere cosciente, ma non veramente cosciente a causa dfel dominio ancora troppo potente di tamas nella natura, l’essere si sottomette sempre di più a rajas, principio, potere e modo qualitativo dell’azione e della passione, determinate dal desiderio e dall’istinto. È così che si forma la natura animale, dalla coscienza limitata, dall’intelligenza rudimentale, rajaso-tamasica nelle abitudini e negli impulsi vitali”.
“Emergendo sempre più dalla grande incoscienza verso la condizione spirituale, l’essere incarnato libera sattva, il modo di luce, ed acquista una libertà, una padronanza ed una coscienza relativa e con esse un senso (…) di soddisfazione e di felicità interiori. L’uomo, essere mentale in un corpo fisico, dovrebbe possedere questa natura, ma in realtà non l’ha quasi mai, fatta eccezione per un piccolo gruppo di anime incarnate. Generalmente contiene ancora troppo dell’oscura inerzia della terra (tamas) e della vitalità animale (rajas), torbida ed ignorante, per essere un’anima di felicità e di luce o una mente con volontà e coscienza armoniose”. (pag. 93)
Queste tre qualità (Guna) sono contenuti nell’essere umano in diverse proporzioni e costituiscono quello che chiamiamo EGO.
“Il segno dell’immersione in Prakriti (la Natura) dell’anima incarnata è la coscienza limitata dell’ego. Si può riconoscere questo stato di coscienza limitata dal costante squilibrio della mente e del cuore, dal conflitto oscuro e dalla disarmonia confusa delle loro diverse reazioni a contatto con le esperienze”. (pag. 93)
CONDIZIONI DEL CAMMINO
45) “Tali sono le condizioni del nostro cammino:
1) Vivere in Dio e non nell’ego; muoversi su fondamenta più ampie della piccola coscienza egoistica.
2) Essere perfettamente sereni davanti a tutte le circostanze e a tutti gli esseri; vederli e sentirli come uni in se stessi ed uni in Dio.
3) Agire in Dio e non nell’ego. Scegliere l’azione non in rapporto ai bisogni e ai principi personali, ma in obbedienza ai comandamenti della più alta Verità (…) Bisogna permettere alla nostra azione di svolgersi sempre di più sotto l’impulso supercosciente di una Volontà divina che ci trascende. (Karma Yoga, retta azione). (pag. 94)
46) “Attraverso quali stadi di autodisciplina pratica possiamo giungere a tale adempimento?
L’eliminazione di qualsiasi attività egoistica (…) è certamente la chiave alla quale aspiriamo.
Ma dato che nel cammino delle opere l’azione è il nodo che per primo deve essere disfatto, dobbiamo impegnarci a scioglierlo nel suo punto centrale: cioè nel desiderio e nell’ego (…) In effetti il desiderio ed il senso dell’ego sono i nodi che ci vincolano alla natura ignorante e divisa.
Il desiderio ha origine nelle emozioni, nelle sensazioni e negli istinti e di lì influisce sul pensiero e sulla volontà.
Il senso dell’ego (..) mette profonde radici nella mente pensante e nella volontà (egoica).
Nel campo dell’azione il desiderio prende svariate forme, ma la più potente di tutte è quella della brama dei frutti delle opere. I frutti bramati possono essere la ricompensa di un piacere interiore, l’attuarsi di qualche idea prediletta, (…) la soddisfazione di emozioni egocentriche, la fierezza per il realizzarsi (…) delle nostre più alte ambizioni. Può essere anche una ricompensa esteriore: ricchezza, onori…”
Per conseguenza la prima regola d’azione dettata dalla Gita è quella di compiere l’opera che deve essere compiuta senza nessun desiderio indirizzato verso i suoi frutti” (pag. 95)
Questo risultato “non può essere ottenuto facilmente senza stadi intermedi. Bisogna prima di tutto imparare a ricevere gli urti del mondo con il centro del nostro essere silenzioso e intatto, anche quando in superficie il sentimento e la vitalità vengono violentemente scossi”.
Ma siccome siamo abituati ad agire spinti da desideri od anche da ideali, “sembrerebbe che ogni dinamismo, ogni movente venga a mancare e che l’azione stessa, priva di tali incentivi, debba necessariamente cessare”.
“Ogni azione deve essere compiuta con coscienza sempre più rivolta verso il Divino e posseduta dal Divino; le nostre opere siano un’offerta sacrificale al Divino. (pag. 97)
Articolo a cura di Roberto Mara Sassone
“Nainital Flowers”, Nainital, India, 18 Novembre 2012, foto Andrea Camerini